venerdì 13 aprile 2007

China Revolution

(foto di enet)
Ieri a Milano è scoppiato, come poteva accadere in tante altre città del nord e del centro, il caso "cinese".
Poteva essere il caso "nigeriano", "senegalese" o "marocchino". Anche "rumeno", "polacco" o "albanese".
Ma è capitato proprio ai cinesi, quelli che entrano illegalmente nel nostro paese per lavorare fino a 16 ore al giorno davanti una macchina da cucire. Senza ribellarsi.
Quella cinese, notoriamente, è una delle comunità più chiusa in se stessa.
Nonostante questo ieri è esplosa.
Inutile indagare nello specifico dell'episodio, per quello esiste la magistratura. E solo la goccia che fa traboccare il vaso.
Sono diverse le città nelle stesse condizioni di Milano. Gli ingredienti base sono: capoluoghi o centri industriali, costo degli immobili più basso in certe zone della città (spesso già in degrado), insediamento di forti comunità straniere, nessun controllo o gestione delle licenze commerciali da parte degli enti preposti.
Mettiamoci nei panni di uno straniero: qual'è il posto dove si può sentire più a suo agio se non con i suoi connazionali? Ed allora assistiamo, praticamente impotenti, alla "auto-ghettizzazione" da parte delle comunità straniere.
Nei nostri panni invece: purtroppo, quanta gente si sente "insicura" a passare da certe zone della città ormai trasformati in ghetti?
Partiamo allora con un tavolo di confronto invitandoli a costituirsi in comitati, diamogli dei punti di riferimento anche fuori dalle loro comunità e cerchiamo di amalgamarci evitando appunto la creazione di ghetti in alcune aree delle città. L'amministrazione locale ha tante responsabilità nella risoluzione di questi problemi, che sia la Milano dei Moratti o la Forlì della Masini i primi a doversi rendere conto di una situazione che si fa esplosiva sono loro.

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